Dieci anni sotto scorta, il racconto di Roberto Saviano: “Sono ancora vivo”

Roberto Saviano, autore di Gomorra, racconta a La Repubblica gli ultimi dieci anni della sua vita trascorsi sotto scorta: “Sono ancora vivo, non mi avete fermato. Non mi sono piegato”.

Dieci anni sotto scorta. Roberto Saviano, 37enne autore di Gomorra e ZeroZeroZero, racconta la sua vita sotto protezione in un articolo scritto di suo pugno per La Repubblica: “Dieci anni. Eppure, è come se fosse accaduto stamane.” – esordisce lo scrittore – “Ci sono cose a cui non ci si abitua. Mai. Una di queste è la scorta. Dieci anni fa ricevetti una telefonata dall’allora maggiore dei carabinieri Ciro La Volla. Non dimenticherò mai le sue parole. Cercava di non spaventarmi, cercava di dare una comunicazione tecnica, ma lui stesso aveva la voce preoccupata: mi avvertiva che sarei stato messo sotto protezione. Quando vennero a prendermi, chiesi: ‘Ma per quanto?’. E un maresciallo rispose: ‘Credo pochi giorni’. Sono passati dieci anni”. Poi, Saviano passa in rassegna le ragioni di quella decisione: “I motivi mi giunsero come una grandinata di situazioni che non conoscevo. Una detenuta che aveva svelato un piano contro di me, poi le dichiarazioni di Carmine Schiavone, poi informative su informative. Volevo tornare indietro e non scrivere più Gomorra, non scrivere più alcun articolo, rifugiarmi”.

“Fare una sintesi di questi anni è difficilissimo.” – ricorda Saviano – “Le prime parole che mi sento di spendere sono tutte di gratitudine per i carabinieri che mi hanno scortato ogni giorno, così come per gli ufficiali che li hanno coordinati. (…) Il tempo dello sconforto arriva quando ti accorgi che tutto viene percepito come normale. (…) La verità è che non avevo idea di ciò che mi aspettasse. Potevo immaginare una vendetta ma non le spire di un Paese talmente immerso in una cultura del ricatto che diventa consustanziale alla strategia dei clan”. Saviano commenta anche le accuse a lui rivolte: “Chi descrive le organizzazioni criminali, gli appalti, il riciclaggio sa che diventerà, in qualche modo, bersaglio. Perché non si discuterà solo del merito di ciò che scrive, ma si cercherà di distruggere la sua credibilità. È come se chi scrive di mafia mettesse in difficoltà il lettore. È come se si innescasse un senso di colpa nel lettore che si chiede: e io dov’ero mentre accadeva questo? Io che faccio? Quasi un sentirsi complici. E quindi è più facile dire: l’hai scritto per interesse, è tutta una messinscena, è tutto esagerato. O l’altra accusa, la più comune di tutte: ma già si sapeva, già è stato detto, il tuo non è nient’altro che mettere insieme cose note. Ma a questo serve l’analisi: a mettere insieme le cose e dare loro un nuovo significato. È ciò che temono di più le organizzazioni”.

Infine, il messaggio di Saviano ai clan: “Eppure, nonostante tutto, quello che oggi mi sentirei di gridare loro in faccia è: non ci siete riusciti! Non siete riusciti a ottenere quello che volevate. Non mi sono fermato, non mi sono piegato, anche se più volte mi sono spezzato. Ma se c’è una cosa che insegna questa lotta che ho intrapreso con l’arma più fragile e potente che esista, la parola, è che proprio quest’ultima può di volta in volta rimettere insieme ciò che è andato in frantumi. Esattamente come scrissi dieci anni fa in Gomorra: ‘Maledetti bastar*i, sono ancora vivo!’.

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