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Strage di Utoya: per Breivik la sentenza shock

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Breivik aveva fatto causo allo Stato norvegese lamentando di aver subito un “trattamento inumano” perché viveva in isolamento, ma è stato smentito…

Anders Behring Breivik ha ricevuto un duro colpo: è stato smentito. Al processo d’appello il terrorista dichiaratamente neonazista – autore delle stragi del 2011 nel centro di Oslo e poi nella vicina isola di Utoya – ha perso la causa da lui intentata contro lo Stato norvegese per “condizioni di detenzione disumane”. Nessuna violazione dei diritti, dunque: tutto sarebbe perfettamente nella norma.

In un primo momento lo stragista neonazista aveva avuto ragione: la Corte di prima istanza di Oslo, infatti, con la sentenza del 20 aprile 2016 aveva riconosciuto che Breivik era stato maltrattato. Ora però la Corte d’appello di Borgarting, con sede a Oslo, ha ribaltato quella sentenza: le condizioni rigide di detenzione a cui è sottoposto Breivik sono giustificate dal fatto che l’uomo non ha mai mostrato segni di pentimento e pertanto costituirebbe una minaccia per la comunità. L’avvocato dello stragista ha annunciato che presenterà ricorso alla Corte suprema della Norvegia e se anche dovesse andare male si rivolgerebbe alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Tutti hanno diritti ad essere difesi, secondo il legale.

Breivik è il responsabile degli attentati che hanno causato la morte di 77 persone. Dopo aver fatto esplodere un’autobomba nei pressi degli uffici governativi, lo stragista si è avviato verso l’isola di Utøya, vestito da agente della polizia norvegese e fingendo di cercare bombe sull’isola. Arrivato sull’isola con un traghetto, Breivik prima ha ucciso i direttori del campo, che insospettiti dalle armi avevano cominciato a fargli domande, quindi si è diretto verso i giovani raccolti in un punto di ristoro, ha estratto il fucile automatico e ha incominciato a sparare sulla folla, arrivando a uccidere 69 giovani tra i 14 e i 20 anni. Dopo un’ora e mezza l’attentatore si è consegnato senza opporre resistenza.

Photo Credits: Facebook

 

 

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