Omicidio Lidia Macchi: ergastolo a Stefano Binda. La difesa protesta: “È innocente”

A 31 anni dai fatti i giudici della Corte d’assise di Varese hanno condannato all’ergastolo Stefano Binda, unico imputato per l’omicidio di Lidia Macchi, la studentessa trovata uccisa con 29 coltellate nel gennaio del 1987 in un bosco a Cittiglio, nel Varesotto.

“GIUSTIZIA È FATTA”

L’imputato è stato inoltre condannato al pagamento di una provvisionale di 200 mila euro a Paola Bettoni, madre di Lidia, e di 80 mila euro a Stefania e Alberto Macchi, sorella e fratello della vittima. “È un giorno di sollievo, perché finalmente è stata stabilita una verità processuale che corrisponde a quella storica”, ha commentato il sostituto procuratore generale Gemma Gualdi. “Oggi è un giorno di dolore per tutti – ha aggiunto – per i familiari della vittima e anche per il colpevole, ma è un affermazione dello Stato e di tutte le persone che hanno voluto la verità”.

“NO, SENTENZA INGIUSTA”

Nei giorni scorsi, l’avvocato difensore di Binda aveva chiesto che il suo assistito venisse assolto “con la formula più ampia possibile”. “Siamo in coscienza convinti che la soluzione adottata sia ingiusta”. È il commento amareggiato dell’avvocato Sergio Martelli, difensore insieme alla collega Patrizia Esposito di Binda. “Penso sempre che i giudici arrivino a usare il buon senso – ha proseguito – hanno ritenuto che sia stato colpevole, noi non abbiamo trovato elementi per una condanna, quindi aspettiamo le motivazioni e vedremo, andremo avanti”.

UN CASO IRRISOLTO DA DECENNI

Si chiude così il primo processo su uno dei più grandi “cold case” della cronaca nera italiana. La svolta arrivò nel gennaio 2016, con l’arresto del Binda, ex compagno di liceo di Lidia e membro assieme a lei del movimento di Comunione e Liberazione e che già a 16 anni era dipendente dall’eroina. Prima dell’assassinio della studentessa, i due erano molto amici e frequentavano la stessa cerchia di conoscenti. A tradire Stefano Binda, secondo l’accusa della procura generale di Milano, è la perizia grafologica che lo ha indicato come autore di “In morte di un’amica”, componimento in versi recapitato alla famiglia Macchi il 10 gennaio 1987, giorno dei funerali di Lidia, che contiene una descrizione della scena del delitto e che per questo è stato immediatamente attribuito dagli inquirenti all’assassino della studentessa.

CHI HA SCRITTO QUEL COMPONIMENTO?

Il processo contro Binda prese il via nell’aprile 2017 con un colpo di scena. Durante la prima udienza, infatti, i difensori annunciarono di aver saputo che un avvocato di Brescia aveva ricevuto mandato da un uomo misterioso che rivendicava la paternità del componimento. Il legale bresciano Piergiorgio Vittorini fu poi ascoltato in aula come testimone, ma decise di trincerarsi dietro il segreto professionale: “So chi ha scritto quella lettera, ma non posso rivelarne il nome“.

I CAPELLI SUL CORPO DI LIDIA

Per l’accusa, oltre alla consulenza grafologica, sono anche altri gli indizi contro l’imputato. Come il libro e la cartolina sequestrati nella sua abitazione che conteneva lo stesso simbolo, un cerchio attraversato da una riga, vergato in calce al componimento “In morte di un’amica”. Tutti indizi ma nessuna prova secondo i difensori dell’imputato oggi condannato all’ergastolo, il quale sin dal giorno dell’arresto ha sempre respinto ogni accusa proclamando la sua innocenza. Interrogato in aula, il 50enne aveva negato di essere l’autore della poesia attribuita al killer ribadendo il suo alibi: “In quei giorni ero in vacanza a Pragelato, ma non ricordo chi fosse con me”. A scagionarlo, secondo i suoi difensori, è però soprattutto un elemento: i quattro capelli ritrovati sui resti della vittima dopo la riesumazione del cadavere disposta nel marzo 2016 per nuovi accertamenti. Capelli, hanno stabilito i periti del Tribunale di Varese, che non sono riconducibili né a Lidia né ai suoi parenti. E che soprattutto non appartengono a Binda.

Delitto Macchi: capelli sul corpo di Lidia non sono dell'imputato Binda

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