Matteo Messina Denaro durante l’interrogatorio in carcere: “Ero un agricoltore, sono un apolide”

Mi chiamo Matteo Messina Denaro, lavoravo in campagna ed ero un agricoltore. La residenza non ce l’ho più perché il Comune mi ha cancellato”. 

Comincia così l’interrogatorio inedito del superboss di Cosa Nostra del 21 febbraio, davanti al giudice per le indagini preliminari Alfredo Montalto e al pubblico ministero Gianluca De Leo nell’ambito di un procedimento penale in cui risponde di estorsione aggravata.

Ormai sono un apolide. Le mie condizioni economiche? Non mi manca nulla. Avevo beni patrimoniali ma me li avete tolti tutti. Se ho ancora qualcosa non lo dico, mica sono stupido”. 

“Non ho soprannomi, me li hanno dati i giornalisti”

L’interrogatorio prosegue in modo simile quando alla domanda del magistrato che gli chiede se abbia dei soprannomi risponde: “Mai me li hanno attaccati da latitante i vari giornalisti, ma io nella mia famiglia non ho avuto soprannomi”. In realtà Messina Denaro è conosciuto tra i suoi con i soprannomi U siccu e Diabolik.

Alla domanda del magistrato su quale sia stata la sua ultima residenza, il superboss di Cosa Nostra risponde: “A Campobello risiedevo da latitante, quindi di nascosto, in segreto. L’ultima che ho avuto da uomo libero è Campobello”. 

L’accusa a Messina Denaro, in questo contesto, è di aver minacciato Giuseppina Passanante, la figlia di un prestanome, e suo marito per riavere un terreno intestato a loro fittiziamente. L’ex latitante smentisce le sue responsabilità, spiegando di averle solo scritto una lettere per riavere il terreno che gli apparteneva.

Matteo Messina Denaro afferma di non conoscere Cosa Nostra

Inoltre Messina Denaro nell’interrogatorio nega di appartenere a Cosa Nostra e anzi, con toni irriverenti afferma di conoscerne l’esistenza solo attraverso i giornali.

L’arresto del superboss

L’ormai ex latitante è stato arrestato il 16 gennaio dai carabinieri del Ros dopo trent’anni di latitanza. Quando è stato acciuffato si trovava alla clinica Maddalena di Palermo dove si recava per ricevere le cure contro il cancro. Intorno alle 8.20 quella mattina, quando si è reso conto di essere braccato, ha provato ad allontanarsi, ma non ha potuto perché tutta la struttura era presidiata e circondata dai militari dell’Arma, armati e con volto coperto.

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